Prolusione Card. Giorgio Marengo in occasione del' inaugurazione dell' anno accademico 2024-2025
Cardinale Marengo: la missione è un mistero
martedì, 15 ottobre 2024
del Cardinale Giorgio Marengo
Roma (Agenzia Fides) - Siamo lieti di pubblicare la Prolusione tenuta oggi dal Cardinale Giorgio Marengo, missionario dell'Istituto della Consolata e Prefetto apostolico di Ulaanbaatar, in occasione della giornata di inaugurazione della Pontificia Università Urbaniana. L'intervento, intitolato "Chiesa missionaria e missionarietà della Chiesa: uno sguardo dall'Asia", suggerisce in maniera confortante il mistero di grazia e gratitudine a cui attinge ogni autentico dinamismo missionario.
La prolusione del Cardinale Marengo è stata preceduta dell'intervento introduttivo del Cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, Pro-Prefetto del Dicastero per l'Evangelizzazione (Sezione per la prima evangelizzazione e le nuove CHiese particolari) e Gran Cancelliere dell'Urbaniana. Dopo l'intervento di Suor Lourdes Fabiola Martinez Sandate, svolto a nome degli studenti dell'Ateneo, le considerazioni conclusive sulle prospettive di studio e ricerca del nuovo Anno Accademico cono state delineate dal Professor Vincenzo Buonomo, Delegato Pontificio e Rettore Magnifico della Pontificia Università Urbaniana
Egregio Gran Cancelliere,
Eminenze e Eccellenze Reverendissime,
Stimato Delegato Pontificio e Rettore Magnifico,
Autorità Accademiche,
Esimi Professori e cari Studenti,
- È con gioia e trepidazione che prendo la parola in mezzo a voi, per la prima volta dopo aver frequentato a lungo questi ambienti universitari dalla parte vostra, degli studenti. Sono molto onorato di trovarmi qui all’apertura di questo nuovo anno accademico, che vedrà ancora una volta insegnanti, ricercatori, studenti e personale amministrativo recarsi quotidianamente su questo colle per dare il meglio di sé, a servizio della Chiesa.
La missione come un sospiro
Il 26 maggio dell’anno scorso è venuto a mancare improvvisamente Padre Stephano Kim Seong-hyeon, sacerdote coreano di Daejeon, con il quale condividevo il servizio missionario in Mongolia. È stata una grave perdita per tutti. Anche lui, come il sottoscritto, aveva studiato in questa Università e ricordo quando parlava dei suoi studi all’Urbaniana. Da sacerdote che si preparava a rientrare nel proprio Paese per iniziare il ministero in diocesi, si chiedeva quale vantaggio avrebbe avuto dallo studiare in questa università. La risposta gli venne da un missionario che aveva speso anni in Paesi a maggioranza mussulmana, in zone di cultura araba. Avendogli chiesto di pronunciarsi sulle teorie del momento, quel missionario non aveva dato una risposta teorica, ma aveva fatto un lungo sospiro: “Ah, la missione!”. Un misto di esultanza e di malinconia, forse anche di frustrazione; gli occhi di quel missionario brillavano e rimandavano a un qualcosa di struggente e di sacro, che aveva plasmato ormai completamente la sua vita. Quel sospiro aveva profondamente interrogato Don Stephano Kim e gli aveva aperto uno squarcio sul mistero della missione come orizzonte che abbraccia la vita, anche quella del sacerdote diocesano. Da quel sospiro aveva deciso di leggere tutto il suo ministero in chiave missionaria. E aveva poi avuto il dono di poter anche partire per la Mongolia.
Un’icona biblica: l’incontro di Emmaus
“Ah, la missione!”. Questo sospiro fa riflettere anche noi, oggi. Guardiamo per esempio all’episodio dei discepoli amareggiati che escono da Gerusalemme, “il primo giorno della settimana”. Siamo al capitolo 24 del Vangelo di Luca. “Solo tu sei forestiero!” (cfr. Lc 24, 18), come a dire: “Solo tu non sai!”. È uno sbotto di delusione e stizza. “Noi speravamo…” (cfr. Lc 24, 21). A volte anche noi siamo presi da sospiri disillusi; le cose non stanno come avremmo voluto e ce ne andiamo con gli occhi bassi, incapaci di riconoscere il misterioso Viandante che pure è lì con noi. C’è bisogno che Lui ci scuota con la sua parola forte: “Stolti e lenti di cuore!” (Lc 24, 25). Presto si capisce che non è uno sterile rimprovero, ma il richiamo a fare un salto di qualità, di profondità. “E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 27). Ebbene sì, l’oggetto della ricerca, dell’insegnamento e dello studio non è l’opinione di questo o quel pensatore, è invece “tutto ciò che si riferisce a Lui”, al Signore e Salvatore, che rivelando il volto del Padre ha cambiato le sorti dell’umanità, innescando il dinamismo della missione. A poco a poco il cuore dei discepoli si apre, fino a trasalire in un sospiro inedito: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32).
Sono l’eucaristia e la Parola a convertire il nostro cuore. Il lavoro accademico che si compie in questa rinomata Università dovrebbe nutrirsi sempre di adorazione e studio meditato in spirito di preghiera e non procedere parallelamente alla vita spirituale, quasi come se fossero binari tenuti insieme a stento. Da qui nasce l’annuncio, non da altro: “Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24, 35). Finché, proprio “mentre essi parlavano di queste cose” (Lc 24, 36), Gesù in persona si fa presente in mezzo a loro e comunica la pienezza che tutta la storia attende: “Shalom a voi!” (Lc 24, 36). La missione tende proprio a rendere concretamente possibile questo incontro; sì, perché laddove i discepoli si riuniscono a testimoniare Cristo, Lui si offre in modo nuovo, inedito, attirando tutti nel Suo amore. È Lui, il Risorto, ad aprire le nostre menti a comprendere il senso profondo delle Scritture e a mandarci esplicitamente nel mondo: “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24, 48). E lo possiamo essere solo nella potenza del Suo Spirito: “ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24, 49).
Una vocazione ancora valida: la missione ad gentes
Se questo dinamismo che tende all’annuncio della sconvolgente novità del Vangelo vale per ogni battezzato in quanto discepolo-missionario - come ci ricorda spesso il Santo Padre, va ricordato che esiste anche una dimensione specifica della missionarietà, quella che chiamiamo prima evangelizzazione o missione ad gentes. Ci si riferisce qui a quel dono di grazia di annunciare il Vangelo in contesti dove esso non è ancora conosciuto e dove semplicemente non ci sono altri a testimoniarlo. È vero che ogni azione della Chiesa è impregnata di missione, perché essa ne costituisce l’obiettivo e ne rappresenta l’orizzonte; ma un conto è porla in atto in situazioni dove la possibilità dell’incontro esplicito con Cristo è offerta in una varietà di declinazioni, rese possibili da comunità credenti già formate e dotate di una moltitudine di carismi e ministeri; diverso – o quanto meno peculiare - è dedicarsi alla testimonianza evangelica laddove non ci sono altri soggetti ecclesiali, perché la comunità non è ancora costituita e strutturata. È indubbiamente vero che oggi la mobilità umana sta creando situazioni nelle quali l’altro si è avvicinato notevolmente, non è più necessario solcare i mari per incontrarlo. In molte parti del mondo esiste già una porzione locale di Chiesa ed è compito proprio della Chiesa particolare che si trova in quel territorio assumere le sfide derivanti da società sempre più multiculturali e interreligiose. Per quelle regioni più segnate da fenomeni come la secolarizzazione e il calo delle vocazioni sacerdotali, probabilmente si dovrà agire in modo diverso rispetto a tempi passati, ma resta il fatto che la Chiesa è già presente in quei territori. Spesso non pensiamo al dato che invece esistono intere regioni del pianeta in cui la Chiesa non si è ancora pienamente costituita o è ai primi passi del suo radicamento locale.
In Mongolia, per esempio, la Chiesa visibile è presente solo da 32 anni ed è costituita da un piccolo gregge di circa 1500 fedeli locali, accompagnati da un bel gruppo di missionari e missionarie, tra i quali uno solo è un sacerdote locale. Si sta tuttora lavorando a completare la traduzione completa della Bibbia in lingua locale; alcuni testi liturgici devono ancora essere approvati dalla Sede Apostolica. Nelle comunità cattoliche si propone un cammino di introduzione alla fede che dura circa due anni e richiede molto impegno da parte di catechisti e catecumeni, che compiono una scelta di fede piuttosto in controtendenza rispetto alla società in cui vivono, che ha tradizionalmente altri punti di riferimento. Tutto è nuovo e ha un impatto dirompente, che necessita profondità, solidità di dottrina, qualità di testimonianza.
Vivere e operare in tali situazioni è quanto convenzionalmente si chiama missione ad gentes, che continua ad avere un suo valore specifico, perché specifica ne è la vocazione. La maggioranza di tali situazioni in cui l’annuncio evangelico e la vita che ne consegue sono ancora agli inizi si trova in Asia, Continente dove vive circa il 61% della popolazione mondiale, di cui però meno del 13,1% si identifica con il Cristianesimo. Serie di fallimenti storici? Errori procedurali? È difficile dirlo. Soprattutto perché i criteri non possono essere quelli del successo o del fallimento come lo intende il mondo. Il riferimento restano le parole di Gesù sul Regno e la sua incidenza nel mondo, segnata da una sproporzione evidente: poco nel tanto, lievito nella massa, marginalità feconda. In ogni caso, è importante ricordare che esiste questo tipo di servizio missionario specifico, anche all’interno di una Chiesa tutta missionaria.
Una formazione specifica
La missione ad gentes richiede dunque una formazione specifica. 397 anni fa, poco dopo l’istituzione della Sacra Congregazione De Propaganda Fide, nasceva il Collegio Urbano, primo nucleo di questa prestigiosa Istituzione Accademica. Si può “imparare” la missione? Sì, come i discepoli di Emmaus hanno dovuto mettersi in ascolto del Risorto che “spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. È soprattutto questione di sondare sempre e di nuovo, sotto tutti gli angoli possibili, il mistero di Cristo e della Chiesa sua Sposa. La missione ha bisogno della filosofia, ma anche delle scienze sociali, della linguistica, del diritto canonico; soprattutto della teologia. Lo zelo da solo potrebbe non bastare. Il Beato Giuseppe Allamano, Fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata e che proprio fra pochi giorni sarà canonizzato in Piazza San Pietro, usava dire: “Non basta infatti per un missionario la santità, ma è pur necessaria la scienza, e questa secondo il nostro fine. La pietà può formare un buon eremita, ma solo la scienza unita alla pietà, può formare un buon missionario”.
E ancora: “Anche dalla tradizione appare manifesta la necessità della scienza. Papi, Concili, Santi Padri, tutti e sempre dichiararono la necessità della scienza per i sacerdoti. Su questo punto la Chiesa ha sempre insistito con esplicite direttive ai Superiori dei seminari, perché non ammettano agli Ordini coloro che non posseggono la necessaria scienza. Questo spiega perché, in alcune comunità Religiose, non si mandino in Missione che i più dotti”. E concludeva: “Credetemi: farete molto o poco bene, o anche del male, secondo lo studio che avrete o non avrete fatto. Un missionario senza scienza è una lampada spenta”.
Si studia dunque non soltanto perché “ci tocca”, in quanto si è stati inviati dai propri superiori e neanche per nutrire vane ambizioni di carriera: non esiste la carriera nella Chiesa. E sarebbe davvero meschino che un’istituzione accademica così unica nel suo genere venisse considerata come fucina di semplici “impiegati” di strutture diocesane, che non si distinguano per zelo e scienza specificamente orientati alla missione. Si studia per amore di Cristo, della Chiesa e delle persone a cui siamo inviati come missionari. È proprio questo specifico tipo di missione a esigere una preparazione adeguata. È questione di rispetto del mistero dell’incarnazione del Verbo, che si riverbera in quello della Chiesa da Lui inviata non come megafono di un messaggio ideologico, ma come corpo mistico e popolo di Dio, che si trova a proprio agio in tutte le culture, fecondandole con il Vangelo.
Si tratta di prendere sul serio l’incontro tra Vangelo e Culture.
Rufina Chamyngerel, anche lei ex-studentessa di questa Università, oggi direttrice dell’Ufficio Pastorale della Prefettura Apostolica di Ulaanbaatar, lo ha detto in maniera disarmante. Nel 2019, in occasione della veglia di preghiera in San Pietro per il mese missionario straordinario indetto da Papa Francesco, ricordò che quando la Chiesa decise nel 1992 di riprendere la missione in Mongolia – interrotta dal settantennio di rigido regime filo-sovietico – non mandò pacchi di libri, ma persone in carne ed ossa, che si sarebbero inserite e avrebbero offerto una testimonianza viva e incarnata del Vangelo.
Sì, l’incontro con Cristo può avvenire nei modi più diversi, per lo più a noi sconosciuti; ma solitamente ha bisogno di mediazioni umane, persone concrete che diano carne alle parole di Gesù e invitino al banchetto del Regno. Lo aveva ricordato con forza San Paolo VI, nell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi e vale la pena riprendere le sue parole oggi: “Gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna - ciò che S. Paolo chiamava ‘arrossire del Vangelo’ - o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?”. Questa scuola di discepolato e di missione apre sempre nuovi percorsi di apprendimento, perché entrando in punta di piedi nelle case ad ogni latitudine scopriamo mondi affascinanti da amare e conoscere a fondo.
Grazie allo studio appassionato, all’approfondimento serio, alla ricerca scientifica, quattro secoli dopo la fondazione del nostro Ateneo continuiamo a sondare le infinite profondità del messaggio di Cristo e a decifrare linguaggi culturali che ci permettono di raggiungere il cuore di popoli e persone. Quanti sospiri custodiscono queste mura! La lontananza da casa e una lingua che ancora non si riesce a dominare fanno sospirare; ma anche una traccia di ricerca che sembra perdersi tra le pagine lette in biblioteca o verità storiche difficili da accettare possono trasformarsi in sospiri. Tutto però diventa anelito, perché nella consapevolezza della mancanza ci si apre di più a Dio e al prossimo.
Dal sospiro al sussurro
Il sospiro allora diventa sussurro. Permettetemi di concludere facendo risuonare qui, dove è stata approfondita come categoria missiologica, l’espressione di Mons. Thomas Menamparampil che mi piace proporre per descrivere sinteticamente la missione: sussurrare il Vangelo al cuore delle culture. La missione è un mistero che ci fa sospirare di amore vero innanzitutto per Lui, il Risorto che ci associa a Sé per rendersi presente agli altri. Cristo e il suo Vangelo sono il cuore e l’unico contenuto dello slancio missionario che anima la Chiesa, oggi come sempre. “Guai a me se non predicassi il Vangelo”, ci ricorda San Paolo (1Cor 9, 9). Il mondo ha bisogno di ricevere questa buona notizia e ne ha il diritto. In un’epoca di sfiducia generale nelle grandi narrazioni, di revisionismo storico post-coloniale, di paura di qualsiasi pensiero che non sia debole (perché ritenuto potenzialmente offensivo e minaccioso) la Chiesa continua ad annunciare il Vangelo, in fedeltà al mandato che ha ricevuto dal suo Signore e che campeggia a caratteri cubitali all’esterno dell’edificio principale, Euntes docete. Questo è più che un semplice messaggio, è una parola di salvezza e di pienezza, incarnata nella vita e destinata al cuore, cioè alle fibre più profonde della persona e della cultura in cui essa vive e si comprende. È l’evangelizzazione del cuore a chiedere impegno di decifrazione, studio, approfondimento del meraviglioso intreccio di cultura, tradizione religiosa, lingua, letteratura, arte, musica, ma anche territorio, simboli, tendenze. Quando si è dentro a questa relazione di profonda conoscenza, stima e amicizia viene spontaneo condividere, sussurrare con delicatezza e discrezione ciò che ci sta più a cuore.
Il sussurro dice anche atteggiamento orante, dimensione contemplativa, proprio come nelle antichissime tradizioni religiose nate in Asia, nelle quali prevale il registro della parola meditata, ripetuta, salmodiata. E del silenzio. Ce lo ha ricordato Papa Francesco l’anno scorso proprio in Mongolia, quando si è rivolto così alla piccola Chiesa locale: “Sì, è Lui la buona notizia destinata a tutti i popoli, l’annuncio che la Chiesa non può smettere di portare, incarnandolo nella vita e ‘sussurrandolo’ al cuore dei singoli e delle culture. Questa esperienza dell’amore di Dio in Cristo è pura luce che trasfigura il volto e lo rende a sua volta luminoso. Fratelli e sorelle, la vita cristiana nasce dalla contemplazione di questo volto, è questione di amore, di incontro quotidiano con il Signore nella Parola e nel Pane di vita, e nel volto dell’altro, nei bisognosi in cui Gesù è presente”. Possa questo nuovo anno accademico all’Urbaniana avvicinare tutti a questo Volto e renderci sempre più raggianti e radiosi nel farlo riflettere intorno a noi.(Agenzia Fides 15/10/2024)